E così, con
passo sommesso, quasi senza accorgersene, questo premio di poesia,
ormai arrivato a ricoprire un ruolo di primissimo piano, è giunto
alla sua quattordicesima edizione.
Si può definire
adulto, nel pieno della sua maturità; chi emerge nelle prime
posizioni rappresenta una realtà nell’ambito della poesia non
professionale, sempre che esista veramente una poesia di questo tipo
in contrapposizione con quella cosiddetta di evasione.
Ma chi affronta
la lettura delle centinaia di opere sottoposte a giudizio, al
termine si ritrova mentalmente e spiritualmente più invecchiato, più
stanco, come se la fatica dell’analisi si riverberasse in modo
implacabile sulla genetica determinando un senso di saturazione non
spiegabile ad una prima sommaria valutazione, ma ampiamente
condivisibile non appena perfezionato l’approfondimento dell’evento.
Affrontare la
lettura delle liriche è come tuffarsi in una piscina colma dei
dolori e degli interrogativi che gli uomini debbono sopportare nel
corso dell’esistenza e l’immergersi nella sua acqua non può non
lasciare tracce sulla sensibilità e sulla percezione del dolore
cosmico che percorre l’umanità.
Non si tratta
di essere Leopardi per arrivare a sentire in questo modo, né il
nostro animo è paragonabile al ritratto di Dorian Gray sul quale si
riversano le brutture individuali, bensì di sentire sulla propria
epidermide il dolore e le passioni che attraversano l’animo del
poeta, intento a cantare la disperazione piuttosto che il pessimismo
verso un universo che lo circonda, ma anche intento a cantare slanci
gioiosi, seppur rari, che costituiscono il presente, il futuro o,
troppo spesso, il rifugio nel ricordo, constatata l’impossibilità di
convivere con il presente.
Così le opere
ti trascinano, vorresti solcare un mare tranquillo, al riparo delle
folate della vita, come se il desiderio riuscisse a costruire una
lastra di materiale fonoassorbente idoneo ad isolarti da quello che
avviene dall’altra parte, quella che leggi, quella degli altri che
continuano ad amarsi, a tradirsi, a piangere, a sorridere anche, a
litigare, a combattere, ad arrendersi.
Il
caleidoscopio dell’esistenza ti passa dinanzi, ma ciò che sovrasta
ogni cosa con la massima chiarezza e durezza è di nuovo la
sensazione del dolore, dolore per la perdita di una persona cara,
dolore per le asprezze e le difficoltà di ogni giorno, dolore per un
amore mancato, per un amore perso, per un amore invano inseguito,
perché sommerso dall’indifferenza, per la mancanza di percezione che
il fascino che unisce o separa due individui è retto da leggi
imperscrutabili alla ragione e tutto deve seguire il percorso
dettato dalle “affinità elettive”, come con grande sagacia intuì
Goethe.
Ma la lettura
delle liriche non ottiene solamente questo risultato di farti
sentire il peso delle sventure che attraversano l’umanità, ti dona
anche il supremo piacere di lasciarti condurre da un’intuizione
poetica, di lasciarti cullare da un verso melodioso, nel quale
scopri una piccola parte di quel firmamento che ti sovrasta con la
sua immensità e con la sua bellezza, persino difficile da ricevere
nel proprio io, così forse arrivi a comprendere, come afferma Dacia
Maraini in “Buio”, che l’uomo è sublime solo quando sogna il reale o
lo inventa, perché è meglio modellare sogni e farsene modellare che
cercare di essere un “homo faber” laborioso e combattivo.
Roberto Bramani Araldi
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