Roberto Bramani Araldi

Da Caldè lungo la Valtravaglia
Prefazione a cura del Prof. Rinaldo Rinaldi

La poesia di Bramani Araldi appare ordinatamente divisa fra lo spazio della contemplazione paesaggistica e quello della meditazione filosofica. Il dato visivo, innanzitutto, ha una rilevanza assoluta: i panorami del Lago Maggiore, fin dalla precedente raccolta Castelveccana del 1997, offrono alla vivissima sensibilità pittorica e coloristica dell’autore infinite possibilità. In particolare, nella prima sezione della nuova silloge (Il lago, la sua gente), si manifesta una straordinaria capacità di cogliere i dettagli naturali più nascosti, le prospettive più originali di una geografia amata appassionatamente, fino trasformarla in paese dell’anima. Rispetto ai risultati precedenti, la nuova silloge di Bramani Araldi tende però a restringere il campo delle descrizioni, a concentrarle sul “paesaggio di casa”, con una ricerca ostinata del “concreto” o della “concretezza” (due parole-chiave di questa poesia) che finisce per trasformare la pura presenza materiale delle cose in un interrogativo generale sul destino dell’uomo, sulla vicenda della vita e della morte, sul suo inafferrabile senso.

È proprio qui che le liriche di Bramani Araldi trasformano il loro statuto: le istantanee paesaggistiche pronunciano delle domande, ipotizzano delle analisi, diventano anzi (come recita il titolo del poemetto che apre la seconda sezione) dei Dialoghi filosofici veri e propri. Rispetto alla discreta ed elegante presenza di Pascoli nella prima raccolta, allora, appare qui vistosa e quasi programmatica la memoria leopardiana: certo, il Leopardi dei Canti, ma anche quello più impegnato filosoficamente delle Operette morali (si pensi al tema dell’“illusione” o del “vano esister”, come una perenne cognizione del dolore che attraversa la poesia). È anche questo il significato, come l’omaggio ad una grande tradizione, della patina lievemente ottocentesca del lessico lirico di Bramani Araldi:  il tentativo di rendere definitiva, separandola provocatoriamente dalla chiacchiera contemporanea, la proposta di amara consapevolezza affidata alla lingua poetica.

Non è casuale, allora, che il gioco di interferenze fra la contemplazione e la riflessione, fra il paesaggio e la filosofia, culmini in alcuni violentissimi testi di denuncia: autentiche satire del mondo contemporaneo, della sua cinica superficialità, del suo svuotamento integrale, secondo una linea già abbozzata nella raccolta precedente ed ora portata alle ultime conseguenze (è la sezione Patologie di un secolo che muore). Ciò che qui il poeta rifiuta è il contrario della sua poesia. Ma a questa, malinconicamente, restano in mano soltanto pochissimi frammenti sopravvissuti all’Apocalisse: tracce quasi invisibili, un suono, un silenzio, un “passo / sommesso” (Crocevia tre). È quasi nulla, ma forse può bastare, seguendo l’esempio montaliano, per superare la bufera.

                                                         RINALDO RINALDI

                                                         Ordinario di Letteratura Italiana

                                                         Università degli Studi di Parma

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