La poesia
di Bramani Araldi appare ordinatamente divisa fra lo spazio della
contemplazione paesaggistica e quello della meditazione filosofica.
Il dato visivo, innanzitutto, ha una rilevanza assoluta: i panorami
del Lago Maggiore, fin dalla precedente raccolta
Castelveccana del 1997,
offrono alla vivissima sensibilità pittorica e coloristica
dell’autore infinite possibilità. In particolare, nella prima
sezione della nuova silloge (Il
lago, la sua gente),
si manifesta una straordinaria capacità di cogliere i dettagli
naturali più nascosti, le prospettive più originali di una geografia
amata appassionatamente, fino trasformarla in paese dell’anima.
Rispetto ai risultati precedenti, la nuova silloge di Bramani Araldi
tende però a restringere il campo delle descrizioni, a concentrarle
sul “paesaggio di casa”, con una ricerca ostinata del “concreto” o
della “concretezza” (due parole-chiave di questa poesia) che finisce
per trasformare la pura presenza materiale delle cose in un
interrogativo generale sul destino dell’uomo, sulla vicenda della
vita e della morte, sul suo inafferrabile senso.
È proprio
qui che le liriche di Bramani Araldi trasformano il loro statuto: le
istantanee paesaggistiche pronunciano delle domande, ipotizzano
delle analisi, diventano anzi (come recita il titolo del poemetto
che apre la seconda sezione) dei
Dialoghi filosofici veri
e propri. Rispetto alla discreta ed elegante presenza di Pascoli
nella prima raccolta, allora, appare qui vistosa e quasi
programmatica la memoria leopardiana: certo, il Leopardi dei
Canti, ma anche quello
più impegnato filosoficamente delle
Operette
morali (si pensi al tema
dell’“illusione” o del “vano esister”, come una perenne cognizione
del dolore che attraversa la poesia). È anche questo il significato,
come l’omaggio ad una grande tradizione, della patina lievemente
ottocentesca del lessico lirico di Bramani Araldi:
il tentativo di rendere definitiva, separandola
provocatoriamente dalla chiacchiera contemporanea, la proposta di
amara consapevolezza affidata alla lingua poetica.
Non è
casuale, allora, che il gioco di interferenze fra la contemplazione
e la riflessione, fra il paesaggio e la filosofia, culmini in alcuni
violentissimi testi di denuncia: autentiche satire del mondo
contemporaneo, della sua cinica superficialità, del suo svuotamento
integrale, secondo una linea già abbozzata nella raccolta precedente
ed ora portata alle ultime conseguenze (è la sezione
Patologie di un secolo che
muore). Ciò che qui il
poeta rifiuta è il contrario della sua poesia. Ma a questa,
malinconicamente, restano in mano soltanto pochissimi frammenti
sopravvissuti all’Apocalisse: tracce quasi invisibili, un suono, un
silenzio, un “passo / sommesso” (Crocevia
tre). È quasi nulla, ma forse può bastare, seguendo l’esempio
montaliano, per superare la bufera.
Ordinario di Letteratura Italiana
Università degli Studi di Parma
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