Big Bang
La luce del tempo
di Angelo Manitta
La lettura
dell’opera di Manitta non può prescindere dal suo precedente lavoro
– Sentieri d’assoluto – di cui rappresenta il naturale sviluppo ed
ampliamento.
Anche in questo caso sussiste l’ordito di un
racconto, seppur spezzato in diversi tronconi, alternato fra brani
in prosa – brevi – e variazioni in poesia – più consistenti –
utilizzate per esaltare o porre in maggiore evidenza lo snodarsi
della vicenda: il risultato è accattivante, tanto che il lettore
viene trascinato dall’evolversi degli eventi, pur nell’inevitabile
difficoltà determinata da una capacità d’espressione culturalmente
evoluta, ricca di riferimenti mitologici e di neologismi.
Ogni campo dello scibile è
utilizzato per conseguire lo scopo precipuo della narrazione,
individuabile in un’analisi poetico-filosofica dell’esistenza
dell’uomo, vivisezionato con rudezza nell’ambito di tutte le
componenti negative, ma anche positive, che costituiscono la sua
essenza.
Gli episodi nei quali è suddivisa la composizione
non alterano una sostanziale unitarietà della narrazione, in
Gilgamesh si assiste ad una continua metamorfosi fra bene e male,
l’eroe nasce come emblema del male, lo combatte, il male assume
sempre nuove forme e pur sconfitto, per consentire di rappresentare
la parte migliore dell’uomo, diviene l’elemento dominante che si
ritrova continuamente anche negli altri passaggi ove le varie
patologie umane trovano una disamina spietata in un’osmosi fra mito
e realtà odierna.
Il linguaggio è forte, aspro, crudo per
rappresentare con incisività i concetti che lo scrittore vuol far
emergere con particolare veemenza, “il tramonto fa scorrere sangue”,
“il cuore di Sita rimaneva, strappato e infilzato da spine cruente,
sulla terra” oppure “e il terrore insanguinerà la terra e scudi
crociati imperverseranno su campi minati dove bambini raccoglieranno
fiori esplosivi” e anche “delle case non sono rimasti che brandelli
di muri, di corpi umani non restano che brandelli di anime. La
polvere brucia le narici, gli odori aspri annebbiano la vista” sono
solo alcuni dei molteplici passaggi di cui è costellata la
narrazione.
La guerra è immanente, è vista come un flagello
infernale cui l’uomo ricorre sia per meschini motivi, che ammanta di
nobili ideologie, sia per liberare l’umanità dalle ingiustizie: in
ogni caso bruttura dipinta con orrore e disgusto.
Ma nell’ambito della rappresentazione dei mali
della società trova ampio spazio una visione bucolica della natura
rappresentata con accenti di rara ispirazione poetica “molecole
d’aria si mescolano a verdi foglie di miracolo, la spiaggia si
tramuta in morbido letto e i sassi tondeggianti in morbidi
guanciali” e “bianche ali si dilungano sulle rive fugaci d’un
sorriso ormai dissolto” o “l’infinito, poggiato oltre il filo del
prato, si mescola all’impercettibile sentiero di fiori che filtra
attraverso la siepe del pensiero astri di luce, intrisi a diamanti",
oltre al percepibile influsso della sensualità “chiusa in alcove da
sottili drappi di seta” che riesce ad alleviare il peso delle
sofferenze che il cammino esistenziale propone con dovizia, anche se
da un certo lato diviene una specie di schiavitù.
In alcuni casi emerge il gusto della
contrapposizione terminologica nell’esternazione di un concetto,
quasi compiacimento edonistico della dimestichezza linguistica
dell’autore, che sa di poter giocare facilmente con i termini e le
immagini “sensuali parole borbotta al sole, suo amante” contrasto
fra la dolcezza di una frase “sensuale” e il verbo borbottare,
utilizzato in situazioni certamente diverse, oppure “l’anima liba
acque immortali tra miasmi….” in questo caso contrasto violento non
solo come uso di vocaboli contrapposti, ma anche come confronto
ideologico.
Un ulteriore elemento caratterizzante questa opera
davvero impegnata, non solo per il ricorso di un elevato livello di
erudizione, per l’uso, seppur sporadico, del latino e del greco, è
rappresentato, oltre che dal tempo, associato al vuoto, a dimensioni
immense travalicanti il breve respiro della vita umana,
dall’interrogativo sulla giustizia che punisce in modo spesso
spietato e, ancora più sconvolgente, in modo cieco “a testa alta va
il truffatore, che semina miseria, che inganna i deboli, che spoglia
i poveri, che profitta della buona fede di gente dal cuore candido
giglio” e “la legge è fatta per condannare i giusti, per violentare
gli onesti, per martoriare i buoni”, dove, fra l’altro l’umanità
divisa vede la parte perdente provare, forse, astio ed odio nei
confronti di chi si sente portato ad offrire aiuto, proprio perché
non può accettare la miglior condizione degli altri e la sua
personale posizione di sconfitta.
Un’opera, quindi, molto impegnata, costruita
sapientemente, colma di riferimenti culturali collegabili non solo
alla nostra storia e civiltà, ma che spazia su altre culture –
pregevole il riferimento al mito della civiltà khmer per le
danzatrici sacre Apsaras, eternate nei bassorilievi dei templi di
Angkor -, rendendo la lettura sicuramente non scorrevole – questo
non è certamente lo scopo dell’autore -, ma inducendo alla
riflessione e alla meditazione sulla profondità delle idee e delle
analisi affrontate con uno spirito innegabilmente innovativo e con
una prosa/poesia osmotiche, dove talvolta è difficile discernere la
linea di separazione fra le due componenti che riescono a catturare
in continuità il senso estetico del lettore.
Roberto Bramani Araldi
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